lunedì 25 febbraio 2019

I soldi non cambiano
le persone, le rivelano

Tra dono e razzismo



Non conoscerete mai a fondo una persona fin quando non avrete un rapporto con essa che riguardi uno scambio economico.

Fanno eccezione soltanto le genuine conoscenze di infanzia protratte nel tempo, invero rarissime, se si escludono le tristi e deludenti rimpatriate favorite dall’avvento dei social: gente che si reincontra trenta anni dopo senza avere nulla in comune e nulla da raccontare, se non elencare le frustrazioni di una vita che non è andata come si sognava oppure le balle per far finta che vada tutto bene.

Torniamo ai soldi.

In merito, le persone possono essere suddivise in tre macro categorie, gli avari, i moderati e gli spendaccioni.
Queste categorie di distribuiscono “spontaneamente” nel sistema e nel tessuto sociale: dove uno più spende, un altro più incassa.

Ma i soldi non servono soltanto a chi li deve spendere, servono soprattutto a chi ne ha tanti per mettere un guinzaglio corto a chi ne ha pochi.

E tra questi ultimi troppi ringraziano pure, più miserabili della miseria.

Non è raro forse sentire il dialogo:

"Quanto pago, Mario?"
“Commendatore! Non si preoccupi, per lei questo ed altro, tutto gratis, torni quando vuole”,
Quante volte abbiamo colto una flebile e servile speranza nel “favorino” dal “commenda”, che ti sistema la figlia, magari “bona” e in minigonna d'ordinanza?

Non c’è dono da chi non ha a chi ha già, il dono si configura soltanto quando uno che ha poco aiuta uno che ha niente.
Perciò l’entità e la natura del dono sono fondamentali e proporzionali all’avere (qualcosa) e all’essere (qualcuno).

In proposito ricordo un episodio accaduto molti anni fa.
Ero in un bar del centro di Roma, per un pranzo veloce.
Il locale era affollato, tutti in piedi, c’era anche qualche politico di passaggio (già mangiato gratis, come si dice), ma in cerca di qualche lecchino (non raro) che offrisse un caffè all’onorevole pavone.
All’improvviso urla femminili attirarono la mia attenzione: era entrato nella sala un “barbone” dall’odore nauseabondo.
Nonostante fosse freddo, non furono pochi i conati (veri? mah?), d’estate sarebbe stata una distesa di vomito.
Io ero avvantaggiato, d'accordo: non ho l’olfatto.
Sdegno plurale, il "barbone" venne cacciato in malo modo da un tirapiedi del titolare, più miserabile dell'espulso, ma in livrea e nell’esercizio delle funzioni per le quali era pagato (ecco il guinzaglio corto).
Pagai la mia consumazione e anche un tramezzino doppio (un “club sandwich”, mi disse la cassiera americana a Roma) da portar via.
Raggiunto il “barbone”, gli porsi il pasto.
La sua espressione sorridente in un viso sporco (ma pulito) e le sue mani sporche (ma pulite) sono state una delle più belle cose che io abbia mai visto.
E la cosa ancor più gradevole è stata che mi sono sentito molto meglio anche io.

Sono stato educato in una famiglia normale, di onesti lavoratori, come si diceva, ma anche un po’ bacchettona: i barboni di soito erano sfaccendati con poca o nulla voglia di fare qualcosa.
Maturando e creandomi una personale visione dei fatti, ho constatato che non è sempre vero, anzi, quasi mai lo è.

Raccontando l’aneddoto del “barbone” cerco forse applausi?
No, mi serviva un esempio soltanto per evidenziare un concetto: donare soldi a chi socialmente non può spenderli – poiché viene emarginato, malvestito e maleodorante – è una doppia violenza.

In tempi nei quali si parla di razzismo ad ogni pie’ sospinto, mi chiedo: non è forse “razzismo” anche il discriminare non per il colore della pelle, ma per l’odore del vestito?
A nessuno piace puzzare ed essere rifiutato dal “livello superiore”, ma l’ipocrisia buonista di chi rifiuta i “livelli inferiori” è un solido puntello della coscienza ingannata.
Aiutiamo anche gli italiani a casa loro, ma senza populismo elettorale.
Cioè: qui.

domenica 24 febbraio 2019

CONFINI


C'era una volta una famiglia molto litigiosa.
Moglie contro marito, genitori contro figli, maschi contro femmine.
Le alleanze non erano ferree, a seconda se si trattasse di dispute generazionali o di sesso, esse cambiavano configurazione.
La famiglia abitava in un condominio altrettanto litigioso e – anche in quel caso – le alleanze si configuravano su parametri volta per volta diversi: per piano, per esposizione solare, per colonna e per scala.
Il condominio faceva parte di un "supercondominio" composto da più palazzine e, ovviamente, quelli che erano nemici fino a un attimo prima, diventavano di colpo e per incanto solidali contro gli altri.
Ma tutti erano compatti nel difendere i diritti dell'isolato.
Essi, però, facevano parte di un comune e per "campanilismo" odiavano quelli del comune limitrofo, che aveva una posizione migliore sul territorio, sia per la fertilità dei campi agricoli che per il commercio fiorente.
Non potevano dimenticare, però, che facevano parte di una provincia nel complesso agiata e per questo motivo non erano ben visti dagli abitanti delle altre provincie.
Tuttavia, nel suo complesso, la regione aveva un reddito procapite superiore alle altre componenti la nazione.
E così via per il continente e il mondo intero.
Una sola cosa stabiliva un equilibrio di pace: i confini.
Finchè ogni componente o comunità si sentiva al sicuro nel proprio territorio, tutto filava liscio, sia se si trattasse della camera da poter chiudere a chiave, sia se si trattasse di una linea demarcata, come un muro o un recinto, o di una linea immaginaria tracciata al suolo.
Le cose miglioravano quando questa linea era ben più ampia e definita dall'acqua, ovvero da un fiume, da un mare o addirittura da un oceano.
Quando però, il genio, l'intraprendenza, le tecnologie di trasporto, infrastruttre e telecomunicazione e, con esse, le tecnologie militari di difesa e di offesa, hanno fatto cadere questi confini, quelle stesse cose sono migliorate e peggiorate di molto al tempo stesso.
Le contaminazioni sono state a volte una benedizione (penso alla Magna Grecia), a volte si sono palesate come prepotenti invasioni miltari o come spontanee migrazioni di massa, indotte dall'ostilità dei luoghi di provenienza per le più varie ragioni: da quelle climatiche, come siccità o glaciazioni, a quelle di persecuzione politica, a quelle economiche per subentrati parametri nocivi allo sviluppo e alla procreazione.
Siamo tutti abitanti del pianeta Terra, non sappiamo se esistono altre civiltà o "razze aliene" al di fuori di esso (anche se il sospetto è grande tanto quanto l'universo), ma probabilmente servirà una minaccia extraterrestre per far sì che un giorno – forse accomunati da un tragico destino – gli esseri umani si sentano fratelli e sorelle.
Meglio se felici e soddisfatti a casa propria e nella propria stanza, nei limiti del possibile, però, altrimenti la giostra ricomincia a girare.

lunedì 10 dicembre 2018

Ridisegnare (male) l'Europa


Mesi fa, in tempi non sospetti, ripresi il tema della rivolta nelle banlieue del 2005.
Il problema, allora, sembrava essere circoscritto alle periferie, agli emarginati, agli immigrati.
All'Eliseo c'era Sarkozy, uno più preoccupato dell'accordatura della "chitarra" della moglie e del suo piffero d'accompagnamento che dei problemi da risolvere.
La tolleranza zero fu il rimedio, tipico di chi non vuole noie nel suo tempo e nel suo tempio.
Hollande e Macron sono stati poi, rispettivamente, il cuscinetto e la purga sotto mentite spoglie.
I francesi – che per "tigna" superano inglesi e tedeschi – sono stati a guardare fino a un certo punto.
Poi hanno detto basta.
Non credo nei movimenti di popolo.
Nei loro convincimenti, però, crede la democrazia.
La polizia europea arriverà alle urne?
Mi preoccupo per la Francia?
Neanche un po' se non in funzione del fatto che un'alleanza con i grillini-gilettini d'oltralpe significherebbe un ridisegnare un già disgraziato assetto europeo, ponendo la Germania nell'antipatica posizione già vista due volte nel secolo scorso.
Tra Brexit, individuazione folle del nemico, perdita di vista degli obiettivi primari di una unione mai realizzata, pesanti influenze da nordest, medio ed estremo oriente e sudest (Suez), la soluzione non potrà che essere di tipo militare.
Salvini e Di Maio, a quel punto, saranno l'ultimo dei nostri problemi.

domenica 18 novembre 2018

2008-2018: 5 Stelle e 10 anni


Anche se il titolo non va così indietro nel tempo, bisogna tornare al 1981 e al 1984 per comprendere meglio.
“Te la do io l’America” e “Te lo do io il Brasile” erano spettacoli (tragi)comici basati sul confronto delle miserie mondialiste viste con l’occhio di un “provincialotto” che – prima ancora di conoscere completamente Roma (per la politica politicante) e Milano (per quella affaristica, che male non gli stava) – negli anni ‘80 aveva già varcato l’Atlantico.
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L’incidente con i socialisti nel 1986 non fu voluto – come si afferma oggi, per conferirgli dignità politica – ma “occasionato” (scusate l’orribile termine, ma funziona nello specifico), ovvero generato da un miscuglio di tracotanza, ingenuità, sottovalutazione, presunzione, etc.
Nulla di politico, insomma: una satira che venne mal presentata, mal disposta e peggio accolta, ma poi resuscitata da Tangentopoli.
“Ma allora Grillo aveva ragione”, ruminava la gente sull’autobus, estasiata da Di Pietro e confusa su Berlusconi e Bossi, ma vogliosa di qualcosa di buono da "Ambrogio", come la signora miliardaria in Rolls Royce in una nota pubblicità di quegli anni edonistici.
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Infatti – la storia insegna – ostacolare un genovese non è consigliabile: una Niña, una Pinta e una Santa Maria sono sempre pronte a salpare, sia per attraversare l’Atlantico senza conoscere l’approdo, sia per puntare al Transatlantico, conoscendolo benissimo, anche grazie agli agganci di Gianroberto Casaleggio.
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Se c’è stato qualcuno che ha votato per Berlusconi perchè tifava Milan, lavorava in Fininvest o in Mediaset, oppure perchè pensava che le leggi ad personam avrebbero finito per favorire anche se stesso, o Bossi perché semplicemente “settentrionale”, figuriamoci quale poteva essere l’estensione del bacino di consenso di uno come Grillo, che promette indistintamente – a poveracci autentici e a milioni di fancazzisti – lo stesso Bengodi.
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Gli anni fondamentali per l’affermazione definitiva del Movimento 5 Stelle sono stati il 2012 e il 2013, prima con le espulsioni chiarificatrici preventive di chi non ubbidiva ai dictat (Tavolazzi, Favia e Salsi i cacciati più noti), e poi qualche malumore (con Pizzarotti a Parma) e qualche altro bisticcio tra gli eletti.
La “struttura-movimento-anti-partiti” era già diventata partito, con un leader che c’era e non c’era, ma che non prometteva di smacchiare giaguari, prometteva soldi veri, soprattutto agli eletti, pagati da quello Stato che si prefiggevano di voler combattere.
A tutti gli altri la promessa del reddito di cittadinanza, poco importa se fosse o sia realizzabile, come propaganda elettorale funziona benissimo.
E ciò basta, anche se diventerà un problema dopo: la morte di Casaleggio per 5 Stelle è un po’ come quella di Steve Jobs per la Apple, quando manca chi pensa, si possono fare guai.
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Il V-Day2 non fu altro, quindi, che l’apoteosi di un “Te la do io l’Italia”, ma un conto è parlare di un Paese dove vai per fare il turista per caso e vieni visto da chi ancora se la passa bene; altro conto è parlare di quello in cui vivi a persone che ci vivono e che hanno qualche problema economico: il rischio di essere preso sul serio è altissimo.

giovedì 8 novembre 2018

Partecipazione

L'azzurro ha qualcosa in comune con il verde,
che ha qualcosa in comune con il giallo,
che ha qualcosa in comune con il rosso e non con l'azzurro,
che non ha niente in comune con l'azzurro e con il verde.

Che cosa contraddistingue un’iniziativa di successo?
Il coinvolgimento, ovviamente, visto che il consenso politico, economico o di semplice gradimento (gratuito o a pagamento che sia) è dato dalla partecipazione, che – secondo Giorgio Gaber – era addirittura sinonimo di libertà.
Ma era la partecipazione a sfociare nella libertà o viceversa?
Cioè, chi è libero (o si sente tale) è anche partecipativo?
Oppure, chi è partecipativo per indole, si sente fondamentalmente un uomo libero, poiché non ha paura di condividere genuinamente le proprie idee e le proprie risorse?
Magari lo fa senza il timore che gli vengano scippate, semplicemente perché crede fermamente che una bicicletta sia più utile in strada – a disposizione di tutti, civilmente – anziché diventare un cumulo di ruggine e marcire incatenata in un giardino privato.
Ovvero, è consapevole, fuor di metafora, che diffondere ricchezza di pensiero arricchisca ulteriormente anche se stesso, di riflesso, oltre che i suoi simili.
Sono dunque la consapevolezza e la gioia del dono, che possono restituire immortalità*, oltre il bene materiale terreno che diventa bene assoluto?
Può darsi.
*D'altronde sono numerose le personalità passate alla storia come benefattori: il loro insegnamento va oltre la loro morte, anzi, spesso la loro scomparsa – di più se tragica – ha consolidato il loro pensiero e la loro azione, anche oltre le aspettative degli stessi protagonisti, poiché essi agivano non per essere ringraziati o ripagati da altri, ma perché li appagava il solo pensiero che qualcuno potesse ringraziarli per quel che avevano detto e fatto.

Giorgio Gaber al "Cantagiro" nel 1969
Ma, allora, perché non accade più spesso?
Perché la gratitudine non è di questo mondo?
Perché non ci aspettiamo nulla dagli altri?
Questione spinosa, visto che non siamo più nell’ambito “del come è”, ma in quello “del come dovrebbe essere”.
O “del come vorremmo che fosse”, che rinvia – come già detto altrove – ad una visione singolare e soggettiva che è l’esatto contrario della partecipazione collettiva, almeno di quella intelligente, quella che ci interessa, non quella da tifosi o da "sindrome del gregge".
Pertanto, a mio giudizio, Gaber era un pessimo ottimista, probabilmente un disilluso utopista.
Vediamone gli sviluppi.

Dal palcoscenico all’impegno politico, al palco del comizio…

Grillo come Gaber, quindi? Assolutamente no.
Innanzitutto perché Grillo si è spinto (male) oltre Gaber.
Egli non si è fermato al supporto ipotetico* ad una forza politica preesistente, ma ne ha fondata una: il Movimento 5 Stelle, criticando le altre.
E questo è già un discrimine notevole, poiché Gaber era fondamentalmente soltanto Gaber, quindi se stesso, quindi uno, ma anche nessuno e centomila, scomodando Pirandello.
Non era Vitangelo Moscarda, certo, ma comunque – come il protagonista dello scritto – era uno che si svelò a se stesso e agli altri, in divenire. E migliorandosi.

* Supporto tra l’altro presunto, quello di Gaber a forze politiche, che vive più nell’immaginario emozionale “emicollettivo” delle appropriazioni indebite delle quali il pensiero del Signor G. è stato (ed è tuttora) protagonista.

In Grillo, invece – ottimo pessimista – il percorso è inverso: è uno che è diventato "milioni" (o viceversa), non soltanto centomila, non svelandosi in divenire, ma ammantandosi, velandosi, cambiando pelle e mettendo le squame da serpente.
Una muta che gli ha consentito di riprendersi la rivincita sui socialisti, già “sventrati” da Tangentopoli e da Di Pietro, ma di più su quella classe politica che essi rappresentavano e lo avevano osteggiato.
Un Berlusconi allo specchio, potremmo azzardare, uguale e contrario: entrambi sono usciti bene da Mani pulite, anzi, ne hanno giovato.
Un’azione, quindi – quella di Grillo – generata da assoluta motivazione personale, nulla di collettivo*.
Né più, né meno della "scesa in campo" di Silvio.
Altro che uno vale uno; vale soltanto uno e gli altri semmai valgono in funzione di quell’uno, altrimenti non sarebbero “grillini”, “berlusconiani”, etc.
Uno che interpreta milioni o milioni che diventano uno?
Democrazia? Sembrerebbe dittatura, a prima vista, seppur autorizzata.
Ma da chi?

*Qui torna prepotente la differenza tra unione e Unità, questione (o cortocircuito) che riguarda maggiormente la sinistra, quella popolare a parole, ma ovviamente elitaria nell’esercizio del potere, sia esso stato quello berlingueriano – se vogliamo subdolo, ma con volontà di uscire da sotto l’ascella sinistra della DC – oppure quello Renziano, post Bersaniano, che era più confuso e imbarazzato negli intenti sommari per non deludere i veterocomunisti.
PS - Renzi anela ancora a quella volontà di potenza più consona ed abitudinaria alla e della destra post-fascista, in lui fa sorridere, in Salvini spaventa. Giampaolo Pansa ha ben distinto: Renzi è un bullo, Salvini ha modi fascisti, il che non significa che sia fascista.

Però la partecipazione e il consenso al Movimento sono stati elevati – enormi, si dirà – ma sono stati anche sinonimo di libertà?
Di democrazia?
O è soltanto sindrome del gregge? O del pifferaio magico? O tragico?
La gente è sempre quella pronta a tirare monetine in pubblico e a prendere mazzette in camera caritatis? O a dare oro alla Patria?
Probabilmente, ma la risposta più equilibrata è come sempre quella che si attiene ai fatti.
Il Movimento 5 Stelle non rappresenta alcun cambiamento, poiché divide, non unisce, se non parzialmente: nulla di nuovo, si tratta comunque di partitocrazia.
L’unica cosa nuova* è il né di qua né di là, ma neanche al centro, visto come covo di potere, come male assoluto, ancor più del fascismo visto da Gianfranco Fini.
Quindi il nuovo che avanza non è nulla di quanto già visto: è, appunto, nulla.
E sul nulla ha costruito il proprio successo: probabilmente ha riavvicinato persone deluse alle urne (e sarebbe un bene), ma con proposte demagogiche di facile presa ed ha anche illuso – con i meetup – altri "bolliti" nei loro partiti di provenienza, puntualmete poi silurati o migrati spontaneamente al gruppo misto.

*Relativamente nuova, già la destra ci aveva provato, ma con scarso successo, con il “né destra, né sinistra”, che però proponeva qualcosa di impegnativo e decisivo; a parole funzionò, nei fatti, no.

E Salvini? Egli è il frutto del "combinato disposto", per usare una terminologia abusata in campo giornalistico e politico.
Tuttavia sarebbe più appropriato parlare di combinato "indisposto": 
- della Lega, per anni litigiosa sul leader; 
- del centrodestra moderato, forse troppo, sicuramente spronato e frenato al tempo stesso da Berlusconi; 
- del popolo votante redivivo che deve aver pensato: sì, Movimento 5 Stelle va bene, ma forse è meglio che i ragazzi siano accompagnati dagli adulti. Lasciamolo provare non è forse tipica frase del genitore che vede il proprio figlio muovere i primi passi?

Tutto sbagliato? Ce n’era bisogno?
Forse no, forse sì: non tutti i mali vengono per nuocere.
È infatti assodato che oggi ci sia maggior consapevolezza – sia da parte dei vertici che della base – del fatto che qualcosa possa e potrebbe cambiare.
Ma in meglio, però, per un esito “probabile”, non a favore di chi propone di andare a vivere su Marte, come fascisti, come grillini o come leghisti, poiché la Terra sarebbe stata inquinata dai comunisti, dai democristiani e dai berlusconiani.
Insomma, la partecipazione è importante, ma con un occhio a chi "partecipa": le feste ben riuscite sono quelle con la selezione all'entrata.
Poco democratico? 
Ce ne faremo una ragione, non lo è neanche così.
Gaber ci perdonerà: tra tante "giornate della memoria" non vorremmo che fosse istituita pure quella per ricordare l'Italia pre-tangentopoli che "funzionava" un po' di più.

lunedì 29 ottobre 2018

Report corregge il tiro sull’editoria

Il Movimento della sega
e il pianto del coccodrillo


L'immagine si ferma al 2016, le cose stanno peggiorando.

Report, il noto e ventennale programma del palinsesto RAI – sì, quella del canone – smorza i toni e dismette i panni inquisitori per tornare a quelli più consoni (vedremo stasera, però), da inchiesta giornalistica, dopo che Milena Gabanelli è passata dall’essere proposta come papabile Presidente della Repubblica a defenestrata.


Già dal titolo della puntata sul “contributo” all’editoria, “Un equo finanziamento”, che andrà in onda oggi, alle 21,15, su RAITRE, traspare – se non una vera e propria inversione di tendenza – quantomeno una brusca sterzata con frenata.
Cautela probabilmente dettata dal fatto che si sono accorti di aver dato la stura al “Movimento della sega”, quello che prima o poi taglierebbe anche il ramo dell’albero sul quale sono seduti anche i giornalisti in ambito RAI, anche se il "terzo canale" è ancora saldamente in mano alla sinistra, infatti impostano la trasmissione mischiando le carte contro l'odiato "padrone" che sfrutta i poveri giornalisti. Vero fino ad un certo punto, e più spesso in giornali che il contributo non lo percepiscono, come vedremo.

La puntata è il seguito di quella che diede fuoco alle polveri nel 2006, infoiando poi grilli furbi, grillini invidiosi e grilletti facili, ed è sempre a cura di Bernardo Iovene (allora freelance, chissà se l’hanno contrattualizzato), ma che si intitolava “II finanziamento quotidiano” (https://www.raiplay.it/video/2009/01/Report---Il-finanziamento-quotidiano-9ddb997e-e18b-43d2-aab9-4f3d03bf6eea.html), un modo subdolo per dire: “ah, ci costi, quanto ci costi!?”.*

*A mio giudizio, nella puntata del 2006 ci furono una serie di imprecisioni e un modo di condurre l'inchiesta discutibile, giungendo a conclusioni su basi di ragionamento eccepibili, come ad esempio chiedere ad edicolanti a campione se conoscessero Linea Quotidiano, anziché mostrare i tabulati ufficiali delle distribuzioni nazionali per verificare le piazze e le edicole servite in queste, soltanto per citare una balla macroscopica.
A mie richieste di contraddittorio, non ebbi alcuna risposta.

Ma leggiamo da 
http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-59dfb7b7-bfed-4307-83b5-0d77b5d10e9d.html

«I finanziamenti diretti ai giornali vanno a cooperative di giornalisti, come il Manifesto, e a società controllate da cooperative, come Italia Oggi.
Sono finanziate anche fondazioni come quella che fa capo alla Cei, nel caso di Avvenire, e come la San Raffaele degli Angelucci per Libero.
[1]


I giornali che ricevono un contributo diretto sono 54, costano allo stato 60 milioni di euro, ma l’80 per cento dei finanziamenti viene diviso tra 20 quotidiani.
[2]


Il nuovo governo ha annunciato il taglio di tutti contributi, anche di quelli indiretti, complessivamente parliamo di 180 milioni di euro. [3]


Il sottosegretario Vito Crimi spiega alle nostre telecamere come e quando avverrà.
Dall’altra parte ci sono gli editori rappresentati dalla Fieg, che invece chiedono un intervento per far fronte alla crisi.
[4]


In un’intervista esclusiva a Report Urbano Cairo dichiara invece di non chiedere aiuti pubblici. [5]


Nel panorama dei quotidiani reggono molto bene quelli locali, che vivono ancora grazie ai propri lettori.
[6]


Come, per esempio, la Libertà di Piacenza, la Gazzetta di Parma, ma anche il Gazzettino, il Mattino di Padova e la Tribuna di Treviso e le cronache locali di Repubblica e Corriere della Sera, dove però lavorano centinaia di giornalisti collaboratori a 2, 4, 6, 9 euro ad articolo, ne scrivono anche 5 al giorno con uno stipendio che non arriva a 1000 euro, anche dopo decenni di collaborazione continuativa.» [7]

Ed ora analizziamo punto-punto

1] Le cooperative e le fondazioni
In Italia ci sono coop. di ogni genere, da quelle necessarie e che possono permettersi di sopravvivere soltanto grazie a sgravi fiscali consentiti dallo statuto interno che obbliga anche a rigidi parametri (su tutti non profit e impossibilità di redistribuzione degli utili tra i soci) a quelle che non sono facilmente individuabili per tipo e settore di operatività.
Le fondazioni sono un po' più "blindate", tuttavia il caso che riguarda i giornali rientra nel primo genere, pertanto nessun problema a verificarne i conti, cioè chi fa cosa e perché lo fa.

2] La percezione

Dai dati comunicati, il controllo non è impossibile: 34 giornali minori e 20 maggiori. 
Inoltre, se l’80% del contributo viene percepito dai più in vista, l’operazione di verifica è ancor più semplice.
Peraltro l'erogazione è stabilita dal dipartimento editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla base dei documenti di idoneità presentati dalle cooperative aspiranti alla percezione del contributo, documenti di dominio pubblico.
Qual’è il punto, allora?
È che, né il controllo, né l’erogazione, né tantomeno l’abolizione del contributo, per decreto, dovrebbero essere di competenza governativa, ma, semmai, parlamentare a 360°.
Sempre se vogliamo ancora parlare di democrazia, la quale presuppone maggioranza ampia o di misura, ma sempre un’opposizione vigile, presente e battagliera.

3] Il risparmio effettivo
Il “costo allo Stato” – secondo Report – va dai 60 ai 180 milioni di euro su base annua. Benissimo. Da uno a tre euro pro capite/anno risparmiati con l’abolizione del contributo: l’anno prossimo tutti in settimana bianca a Cortina! 
Ma di che cosa stiamo parlando? Di spicci per il caffè al bar o di abolire la libertà di stampa e la pluralità di informazione?
A quando i gulag?
Senza contare che il main stream (quello che Grillo e i suoi dicono di voler combattere) del contributo alla piccola e media editoria se ne frega, anzi, se lo aboliscono, i giornaloni infarciti di pubblicità saranno ancora più liberi di fornire indisturbati la propria versione dei fatti, magari foraggiati da lobbies.
E pagherebbero sempre meno i propri giornalisti senza alternative di impiego.

4] La sega (non la Lega)

Chi ha la sega in mano è Vito Crimi, il Senatore del Movimento 5 Stelle nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria (dopo essere passato per il COPASIR).
Egli è determinato a portare a termine il suo progetto di sventramento dell’Ordine dei Giornalisti, in seno al quale è peraltro in corso una corposa, auspicabile e necessaria riforma.
La sua strategia sembra quella di togliere il supporto a giornali e giornalisti, affinché – abolendo il finanziamento – essi non abbiano più un organismo che li tuteli.
Ma, nel caso, non ci sarebbe soltanto L’OdG da abolire, questo Crimi lo ha dimenticato?
Oppure si tratta di una strategia che sarà attuata con tattiche diluite da pesci in barile?
Prima l’Ordine dei Giornalisti (ODG), poi la Federazione della Stampa (FNSI) e a seguire l’Associazione Stampa Romana (ASR), la Federazione Italiana Editori di Giornali (FIEG), l’Associazione Stampa Medica Italiana (ASMI), l’Unione stampa periodica italiana (USPI) e addirittura l’Associazione Nazionale della Stampa On Line (ANSO), visto che il blog di Grillo dovrà rimanere unica voce incontrastata?
Se non è pensiero unico questo…
Di più: si prospetta all'orizzonte un esercito di disoccupati “incarogniti” per i quali lo Stato dovrebbe farsi carico di una interminabile lista di casse integrazioni?
Dov'è il guadagno? Dov'è il risparmio? Questo sarebbe il vero costo sociale enorme per lo Stato.
L’unica cosa certa è che a perdere – oltre a migliaia di posti di lavoro – sarà la pluralità di informazione.
Un po’ come se si volessero abolire il Ministero degli Interni e quello della Difesa per poter togliere le armi alla Forze dell’Ordine e ai militari.
Tutto giusto?
A mio giudizio, no: il problema non è mai la pistola, ma l’uso che se ne fa.
Il tesserino da giornalista è oggettivamente paragonabile ad un’arma, ma di difesa pubblica, non di offesa.

5] La lima e la raspa
Urbano Cairo? Non li prende? Li ha presi in passato? Sì, no, ma che c'entra?

6] Pubblicità
I giornali che sopravvivono senza contributo ospitano corposi spazi pubblicitari, nessun giornale può sopravvivere con il solo prezzo di copertina: il “grazie ai lettori” nel testo di presentazione della puntata odierna di Report è una boutade scandalosa.
Ma, se non bastasse, come ho più volte sottolineato, la pubblicità sottrae spazio all’informazione e – cosa più grave – spesso la influenza negativamente: se pubblico l’inserzione di un'impresa, a pagamento, non potrò condurre un’inchiesta sulla regolarità del suo operare, con tanti saluti all’oggettività e al servizio pubblico.
La mia proposta, presentata oltre dieci anni fa, è quella di rendere gratuita la fruizione dei giornali che percepiscano il contributo e il divieto di avere spazi pubblicitari nei medesimi, esattamente come dovrebbe essere per la RAI: o il canone o la pubblicità, altrimenti, appunto, non si può parlare di servizio pubblico.
Chi non è d'accordo, è un furbetto: fa il giornale per incassare il contributo, non per informare.
Facile-facile, anche qui.

7] Il pianto del coccodrillo
A parte il fatto che se dovessi scrivere 5 articoli al giorno a 9 euro l’uno (non di meno, è già “schiavismo” così), intascherei 45 euro e non mi farebbero schifo: è sempre meglio che scavare con le mani in miniera. 
Ma sarebbe più corretto dire che è impossibile scrivere 5 pezzi di qualità al giorno: il primo sarà buono, il secondo mediocre e gli altri saranno un copia e incolla raffazzonato in fretta e furia: chi non è mai stato in una redazione non può comprendere a quali ritmi si lavori e con quale stress.
E poi, se dopo decenni di collaborazione, le retribuzioni non sono state adeguate neanche ai più bravi è perché soltanto nei casi citati (ovvero nei giornali che non percepiscono contributo) la gestione dei cordoni della borsa è in mano a privati danarosi che lucrano sulla pubblicità e della competenza giornalistica se ne fregano, con conseguente abbassamento di livello della qualità generale dell’informazione "ufficiale".
E pur vero che alcuni articoli non li pubblicherei neanche gratis, altro che 2, 4, 6, 9 euro, ma questo è un altro discorso.

Le associazioni di categoria e le federazioni preposte insorgano, quindi, e giustamente. Occorre fermare una guerra civile (soltanto nel senso di autolesionista, di "civile" c’è ben poco, per il resto), un tutti contro tutti, tra un fuggi-fuggi generale da e con barattoli di marmellata (oggettivamente?) rubati e sacrosanto diritto alla tutela della pluralità di informazione.

Concludiamo con un noto adagio: “Attento a quel che chiedi, potresti ottenerlo…”

domenica 28 ottobre 2018

Il più bullo del reame

Lo dico e lo scrivo da venti anni, anche se il video ne ha "soltanto" 4
https://www.youtube.com/watch?v=Zfj4hXHd40c
Tutto quello che era stato pianificato (e paventato da pochi lungimiranti sospettosi) si sta svolgendo esattamente come previsto.
Mi sembra di assistere ad una partita a biliardo dove uno dei giocatori pensa che non debba imbucare la palle proprie, ma quelle dell'avversario.
Purtroppo i social non aiutano mettendo in giro frasi tipo "governi non eletti" che portano drammaticamente fuoristrada, non hanno e non danno alcun appiglio legale o legislativo.
Scusate se ribatto sempre sul medesimo tasto, ma quel che manca sono giornali e giornalisti che facciano da filtro, da interprete, tra le parole quasi incomprensibili dei tecnici (in mala e buona fede, smascherando i primi e supportando i secondi) e le orecchie del popolo fu sovrano.
Non deve essere il tecnico ad esemplificare, ma qualcuno che con facili metafore faccia comprendere i complessi meccanismi.
Il primo passo verso il delirio e la confusione lo ha generato Grillo parlando di democrazia diretta e dei deputati come dipendenti, snaturandone la funzione e deresponsabilizzando la persona, paradossalmente.
Ma agli aspiranti grillini ciò parve cosa buona e giusta, facendo leva su invidia sociale giustizialista, più che su bisogno di giustizia.
Deputato – penso lo sappiate tutti – è un sinonimo di delegato, ovvero persona alla quale diamo carta bianca per partecipare alle sedute parlamentari: quando vota, lo fa per sé, per quelli che lo hanno eletto e anche per gli altri non rappresentati.
Nei governi tecnici non vi è nulla di illegale, sono previsti, ci sono sempre stati, questo non significa che sia corretto, ma è una forma di paracadute quando non si raggiungono i numeri di maggioranza previsti dalla costituzione repubblicana e – prima ancora – dall'ordinamento democratico che la disciplina nelle sue forme basilari.
Più la costituzione è complessa, lunga e arzigogolata, più è probabile che qualche furbetto ne faccia l'uso che più gli aggrada.
Berlusconi aveva ragione sulla riforma, anche se non condivido molte sue fantasie liber.
Se nel 2011 non avesse fatto un passo indietro, poiché non voleva assumersi la responsabilità di decisioni impopolari, ma necessarie (e anche perchè era sotto ricatto, nessun politico diventa tale se non è ricattabile, per inciso), probabilmente la sequela dei governi "non eletti" ce la saremmo risparmiata, ma tant'è.
Il governo attuale è formato da gente che non vedeva l'ora di governare, ma non ha la più pallida idea di come si ottengano i risultati auspicati.
Anche le istanze più corrette vengono portate in sede sciaguratamente, in politica la forma è anch'essa sostanza.
Questo è il più grande problema: se arriva un bullo più bullo dei bulli che ci vessano, non aspettiamoci soluzioni, ma ulteriori grane, specialmente se è alleato con una congrega di segaioli che si credono secchioni.